Sorprendente ritorno all’attività registica di Ruggero Deodato (Cannibal holocaust, 1980) dopo uno iato decennale (se si eccettuano due brevi lavori), Ballad in Blood è una curiosa e personale rilettura di un noto fatto di cronaca nera (l’omicidio a Perugia della studentessa inglese Amanda Kirchner) che il regista potentino filtra in una chiave surreale, mescolando gli sguardi più variegati: un incrocio letterario tra Bret Easton Ellis e Jorge Luis Borges, rivisto cinematograficamente con i toni di uno Jodorowsky.
I tre protagonisti del racconto – uno spacciatore di colore (Duke), il suo amico italiano (Jacopo) e la problematica ragazza di quest’ultimo (Lenka) – passano tutto il tempo del film nella ricerca di liberarsi del cadavere di una compagna di studi e amica di Lenka (Elizabeth), e di levarsi da un guaio spiacevole quanto l’accusa di un omicidio; ma, contemporaneamente, continuano a bere e drogarsi senza soluzione di continuità. Così, nel loro confuso universo, non solo non riescono a trovare una via di uscita dalla spinosa situazione, ma faticano enormemente a mettere insieme i confusi ricordi della notte precedente, che getterebbero una luce definitiva sull’accaduto. Almeno, fino alla sorprendente rivelazione conclusiva che offre un epilogo al contempo sarcastico e fantastico – con l’intervento di un paio di personaggi chiave dalle caratteristiche assolutamente lynchiane.
Sullo sfondo di una Urbino tanto spettrale, quanto mozzafiato nella sua bellezza antica e fuori dal tempo, la narrazione si dipana immersa in una interminabile festa di Halloween – che ricorda in parte, nelle sue estranianti e vagamente minacciose atmosfere, i festeggiamenti dissennati di The Crow / Il Corvo, 1994 di Alex Proyas – in cui tutti quanti sembrano trasfigurarsi in entità oscure, malevole – dall’anziana donna uccisa erroneamente da Duke e Jacopo fino ai giovani abbandonati sui marciapiedi, senza ovviamente dimenticare i partecipanti alla festa che fa da matrice al delitto.
Un “look” riuscitissimo in cui si miscelano abilmente il “goth” con il surrealismo fantastico, grazie sia all’eccellente fotografia di Mirko Fioravanti (la cui carriera è praticamente sempre rimasta all’interno dei circuiti televisivi: “dop” per Solo per amore; elettricista per Un medico in famiglia; capo squadra elettricisti per Carabinieri) che predilige colori lividi negli esterni, per poi ritrovare lucentezza e forza negli interni; sia alle puntigliose costruzioni scenografiche di Paolo Innocenzi (che ha esordito con il “giallo” Morte sospetta di una minorenne, 1975 di Sergio Martino).
Tuttavia, l’elemento positivo più inatteso è il cast pressoché perfetto, soprattutto considerando le presenze sceniche degli di buona barte del cinema italiano degli ultimi anni. La naturalezza dell’esordiente Edward Williams (che il regista narra di aver scoperto mentre scaricava pacchi alle poste) e di Gabriele Rossi (MultipleX, 2013 di Stefano Calvagna) rendono credibili i loro personaggi, sbandati e assolutamente stralunati, mentre tentano di mantenere una qualunque presa sulla realtà che invece si sgretola tra le loro mani. Ancor più stupefacente appare Carlotta Morelli (nella cui cortissima filmografia appare un solo altro lungometraggio: Fratelli di sangue, 2015 di Francesco Rizzo) nel suo complesso ruolo, pivotale per tutto quanto il film, in cui lascia emergere lentamente, un pezzo alla volta, le vera natura della sua difficilmente dimenticabile Lenka. Anche se la narrazione tende a concentrarsi su questi soli tre personaggi, non si possono fare a meno di menzionare la misteriosa coppia “zio-e-nipote” composta da Ernesto Mahieux (Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata, 2011 di Carlo Vanzina) e Roger Garth (un “supermodel” notissimo per la sua androginia, che risalta magicamente all’interno di questo lavoro grazie anche al notevole “outfit” realizzato da Loredana Paletta, costumista alle primissime armi, ma già in grado di fornire un lavoro più che efficace), la cui valenza – soprattutto in quest’ultimo – tracima in una vaga metafisica favolistica che contribuisce enormemente – in special modo nella chiusa – a sostenere le ottime atmosfere irreali e suggestive che avvolgono la produzione.
Claudio Simonetti (La terza madre, 2007 di Dario Argento) contribuisce uno “score” in linea con la bontà dei suoi lavori più recenti, sebbene, a tratti, tenda a rimanere nascosto nel sottofondo sonoro.
Certo, è quanto di più lontano dal cinema che ha reso famoso Deodato – c’è sempre qualche momento splatter (curato ed efficace, come sempre nei suoi lavori) – ma l’immersione in un ambito culturale più alto risalta evidente – a volte anche un po’ troppo, suggerendo una punta di presunzione, che è l’unico, vero limite di questo titolo, insieme a qualche raro momento di stanca – e rischia di far digrignare i denti allo zoccolo duro dei suoi “fan”; tuttavia, per chi è in grado di apprezzare il cinema come forma d’arte e cultura, oltre che d’intrattenimento, e sa apprezzare il coraggio di chi osa – e indubbiamente qui, Deodato, per quanto vicino agli 80 anni, osa parecchio tanto nella vicenda, quanto nella confezione, che nella sfida a un cinema italiano asfittico e ripetitivo, dove una falsa attenzione al sociale è servita come un insipido polpettone buonista al servizio della politica nazionale – troverà probabilmente molto più di quanto possa lecitamente attendersi, anche in rapporto al “budget” ridottissimo, comprese le memorabili sequenze della festa all’interno del Pozzo di San Patrizio, una rappresentazione visuale di un baccanale infernale che sfiora il sublime.
Ballad in Blood (2016, Ruggero Deodato)
75%Punteggio totale