Complesso film multistrato messo in piedi – regia, sceneggiatura e produzione – dall’eclettico Sion Sono (Suicide Club, 2001; Strange Circus, 2005; Tokyo Vampire Hotel, 2017), in cui si uniscono almeno tre anime: sociopolitica: la situazione della donna in Giappone; filosofica: una rappresentazione quasi pirandelliana dell’esistenza (attraverso una messa in scena metacinematografica che è anche metateatrale); commerciale: libertinaggi ed eccessi a sfondo s/m (non a caso – e anche con notevole senso autoironico – appartiene a un progetto di rilancio del “roman poruno” messo in cantiere dalla Nikkatsu, casa di produzione diventata una “major” proprio grazie a questo genere di cinema popolare).
La trama segue a lungo uno sviluppo semplice e dall’azione ridotta – una giovane artista sfoga le sue frustrazioni sulla più matura segretaria personale, umiliandola tanto fisicamente quanto psicologicamente; finché un’intervista la costringe a fare il punto sulla sua vita, scoprendola contraffatta e marchiata dal suicidio della sorella; ma, a un tratto, la realtà si ribalta in una recita, impostando l’azione su tutt’altro piano – ma la messa in scena è particolarmente complessa, con balzi temporali e interferenze della realtà nella finzione che cortocircuitano la narrazione ribaltandone i valori – è il caso del rapporto tra la diva famosa e la giovane attrice al suo primo ruolo importante.
Sono è ottimo nella difficile gestione degli equilibri, evitando che i singoli elementi si ribaltino, provocando il crollo della complicata e delicata struttura. Anche se, a volte, qualche scarto sfuggente può suscitare perplessità (va anche sottolineato come la complessa struttura cinematografica e narrativa elevino il film al di sopra di qualunque velleità popolare, fornendo, in quest’ottica, un senso particolarmente tagliente ma azzeccato al titolo), la sua scelta di utilizzare l’ottica fortemente disturbata della protagonista, con un conseguente racconto fumoso e allucinatorio, si rivela un’opzione straordinariamente azzeccata – a tratti ricordando quel capolavoro della più recente letteratura anglosassone che è Glamorama di Bret Easton Ellis (dove anche lì una misteriosa “troupe”, reale o immaginaria, insegue il protagonista in un crescente stato di delirio) – e positivamente sorprendente.
Gli eccellenti duetti di Ami Tomite (che con il regista aveva già lavorato in Eiga: minna! Esupâ da yo! / The Virgin Psychics, 2015) e Mariko Tsutsui (Chakushin ari / The call – Non rispondere, 2003 di Takashi Miike) danno spessore ai dialoghi, spesso caustici, e credibilità a un’azione surreale e psicotica, la cui fruibilità deve molto alla puntigliosa attenzione al quadro del “director” nipponico.
Un’attenzione che viene sorretta dal notevole lavoro di Takashi Matsuzuka (Tsumetai nettaigyo / Coldfish, 2010 sempre di Sion Sono), per le scenografie (elemento davvero fondamentale nel racconto), e di Ito Maki (Kemonomichi / Love and Other Cults, 2017 di Eiji Uchida), come direttore della fotografia, in grado di sottolineare i differenti momenti – recita, realtà, ricordo – del film attraverso peculiari sfumature.
Lontano dall’erotismo, malgrado un testo decisamente sessuale, Anchiporuno è più che altro il diario di una mestizia profonda che né lo sfogo creativo, né le pulsioni sessuali, e tanto meno il rifugio nella malattia mentale sono in grado di elaborare, spingendo la vicenda della protagonista verso un epilogo che non può, anche a causa delle ingerenze di un rigido codice sociale (per quanto ipocrita e dissimulatorio), in nessun modo essere evitato.
Antiporno (2016 - Sion Sono)
75%Punteggio totale