Un killer professionista si innamora improvvisamente di una misteriosa dark lady. Durante la loro storia d’amore, all’uomo viene dato un importante incarico: uccidere in una frazione di secondo, servendosi del suo fucile di precisione, un non ben specificato individuo. Purtroppo durante la missione, proprio quando il killer centra il bersaglio, una farfalla si posa sul mirino della sua arma facendolo sbagliare. Sarà una lunga fuga dalla terribile Yakuza e da un pericoloso assassino chiamato “Killer n.1”.
Prima di parlare di “Koroshi no rakuin” (questo è il titolo originale dell’opera) bisognerebbe quantomeno spendere due righe su chi lo ha partorito. Il signor Seijun Suzuki (1923 – 2017) è stato senza dubbio uno dei massimi rappresentanti del cinema pop nipponico (quello più strampalato per intenderci), soprattutto grazie a pellicole quali “Tokyo drifter” o l’ironico “Ufficio investigativo 23: Crepate bastardi”, produzioni estremamente povere in quanto a budget (la Nikkatsu, una delle case di produzione più vecchie del paese, era solita far durare le riprese poco meno di dieci giorni), ma pregne di stile e fantasia .
Le ristrettezze economiche portano però gli artisti a sfruttare quel poco che hanno a disposizione, riuscendo spesso e volentieri a cucirsi involontariamente addosso uno stile che si porteranno avanti per tutta la durata della carriera. Seijun non fa eccezione, tant’è che ogni sua produzione ha degli elementi ben precisi che le accomunano; oltre ad una totale anarchia narrativa ed un astrattismo visivo avvolgente e magnetico, le peculiarità di questo immenso maestro sono senza dubbio l’ironia grottesca tipicamente “Made in Japan” e, ultima ma non ultima, un evidente accenno polemico verso la cultura statunitense – retaggio di un passato tristemente noto a tutti.
Etichettare “La farfalla sul mirino” come semplice “noir”(nonostante la presenza della “femme fatale ” di turno) o “Yakuza movie”, oltre ad essere riduttivo, é probabilmente irrispettoso nei confronti di una pellicola che, tenendo conto dell’anno di produzione, tenta di contaminare svariati generi in maniera originale e innovativa.
Attraverso una narrazione completamente slegata, l’autore si comporta proprio come un piccolo chimico, miscelando sapori diversi ma tenuti assieme grazie al suo incredibile estro visionario. L’anarchia narrativa, però, è solo uno dei tanti tasselli che compongo questo stranissimo e affascinante gioiello; il film, grazie anche ad un montaggio sperimentale e straniante, spezzetta la coerenza narrativa in tanti piccoli mosaici, splendidamente fotografati in un bianco e nero a metà strada tra il gotico e l’espressionista, con giochi di luci ed ombre che gettano un alone senz’altro spettrale sia all’intera cornice filmica, sia ai personaggi, complessi e difficilmente inquadrabili. Il meraviglioso astrattismo che viene snocciolato minuto dopo minuto, oltre a donare una certa potenza filmica, si fa quasi portavoce della complessità culturale giapponese, all’epoca in via di modernizzazione, grazie anche alla rivoluzione culturale proveniente dall’altra parte del mondo, ma ancora troppo tradizionalista. Il geniale autore decide quindi di gettare l’amo attraverso la rappresentazione della qui presente “lady in black”- interpretata magnificamente da Annu Mari – una donna forte che, diversamente dalle colleghe del periodo, tenta con l’astuzia e il fascino di soggiogare e tenere testa al potere maschile impersonificato da Joe Shisido – tipico uomo maschilista e manesco – offrendo quindi una visione del tutto nuova della donna del Sol Levante.
Nonostante l’originalità del prodotto, la Nikkatsu rimase ampiamente insoddisfatta del risultato finale, costringendo il povero Suzuki, secondo loro artefice di un lungometraggio privo di senso e, come se non bastasse, colpevole di fomentare l’anarchia nelle giovani generazioni, ad un allontanamento di ben dieci anni dalle scene.